La tartuficoltura nella storia

Il sogno di poter coltivare i tartufi si perde nella notte dei tempi. Fino alla fine del ’700 i tentativi venivano fatti senza nessun fondamento scientifico. In quegli anni, infatti, non era ancora conosciuto il legame che intercorre tra la pianta superiore ed il fungo, e si procedeva per esperimenti che ora sappiamo non avrebbero mai portato ad alcun risultato certo. Il primo a capire che, per ottenere i tartufi, bisognava coltivare delle piante, ovvero in modo indiretto, fu un agricoltore francese, di nome Giuseppe Talon.

Nel 1931, Francesco Francolini per primo ritenne che fosse necessario, durante la semina delle ghiande, cospargervi attorno dei pezzi di tartufo. Ma anche con questa tecnica i risultati furono molto deludenti. Un passo molto importante fu fatto, nel 1956, da Lorenzo Mannozzi –Torini, che può essere considerato il padre della moderna tartuficoltura. Egli riprese la sperimentazione del Francolini, apportandovi alcune modifiche, come la semina in fitocella e l’utilizzo di terreno di natura geologica uguale a quello dove cresceva spontaneo il tartufo usato nell’esperimento, con l’aggiunta alla soluzione sporale dello zucchero come collante. Anche con tale metodo, i risultati non furono del tutto positivi.

Un vero salto di qualità fu fatto, successivamente, con la sterilizzazione dei semi e del terreno adoperato per riempire i vasetti, con il calore, ad una temperatura superiore a 80 gradi: questo, per eliminare la presenza di eventuali altri funghi concorrenti. Ad aprire la strada alla tartuficoltura su basi scientifiche  fu Anna Fontana nel 1967, del C.S.M.T. del  C.N.R. di Torino, che per la prima volta riusci ad ottenere piante micorrizate in condizioni controllate con Tuber maculatum.